Per chi la vita è una corsa ad ostacoli

Veniamo a sapere che C. è stata portata d’urgenza all’ospedale di Gatundu, a 40 chilometri di distanza da Nairobi, cosa non affatto irrilevante per gli standard qui.

Le nostre mamme sono infatti solite partorire in un dispensario locale; pagano 40 bob (circa 31 centesimi di euro), partoriscono e tornano a casa subito dopo.

C. ha però avuto una complicazione. Al posto di rompersi normalmente le acque, C. ha iniziato a sanguinare, cosa che ha comportato il trasferimento della donna.

C. non possiede alcun telefono, motivo per cui la comunicazione non è per nulla agevole; ed è solo tramite una sua amica che riusciamo ad avere qualche aggiornamento circa le sue condizioni.

C. è riuscita a partorire. È stata sottoposta al parto cesareo durante il quale, per errore, è stata ferita anche la bimba. Le è stato fatto un piccolo taglio, proprio vicino all’occhio, ma fortunatamente sembrerebbe essere nulla di grave e l’amica ci dice che C. e la piccola dovrebbero essere dimesse a breve.

Ma passano le settimane e di loro ancora alcuna notizia.  

Ancora una volta sarà la sua amica a farsi viva e metterci a conoscenza del fatto che C. è ancora all’ospedale.

“Non l’hanno più dimessa in quanto non ha i soldi per pagare il conto.”

Conto che, inutile dire, nel frattempo, continua a salire.

Il giorno seguente, io e N., l’operatrice locale nonché la coordinatrice del nostro progetto mamma-bambino, decidiamo di recarci all’ospedale per vedere le condizioni di C. ed eventualmente pagare il conto per farla dimettere.

Chiediamo informazioni alla reception, facciamo il giro di tutti i reparti, chiediamo di lei ai dottori, ma nessuno sembra inizialmente poterci dare alcuna informazione utile.

Troviamo finalmente un’infermiera gentile che si ferma ad ascoltarci e cerca davvero di capire chi sia la donna che stiamo cercando.

“Ahhh, C.! È stata giusto dimessa ieri sera!”

Ci spiega che alcuni dottori, essendo dispiaciuti per lei, hanno organizzato una colletta per pagare il suo debito e così, dimetterla.

Seppure un po’ scocciate per avere fatto quel viaggio a vuoto, io e N. rimaniamo felicemente stupite nel sentire quelle parole.

É così che C. inizia il suo percorso di due anni nell’ambito del nostro progetto mamma-bambino e io inizio a conoscerla.

C. mi racconta la sua storia e nell’ascoltarla ci sono alcune cose che ormai mi risuonano familiari.

Ognuno ha la sua storia e questo è più che vero. Ma è anche vero che ascoltando le storie delle varie mamme ci sono certe dinamiche, certi elementi che, bene o male, ritornano sempre.  Una sorta di fil rouge.

Negazione e non accettazione. Violenza domestica. Stigma. Questo è il denominatore comune che unisce le loro storie.

C. scopre di essere sieropositiva nel 2008 durante una visita prenatale. Era incinta del quarto figlio.

Quando C. scopre il suo stato, si rifiuta di crederci, tant’è vero che smetterà di assumere i farmaci antiretrovirali e inizierà a prenderli nuovamente solamente 10 anni più tardi, perché nuovamente incinta.

C. racconta che, a quel tempo, era sposata ma che suo marito non era affatto di supporto, anzi.

“Quando gli ho comunicato la notizia, non solo non voleva crederci, ma mi ha anche accusata. La colpa era mia. A detta sua, lui non poteva essere sicuramente positivo e così dicendo si è sempre rifiutato di andare a farsi testare.”

C. si separerà successivamente dal marito che verrò a scoprire essere anche violento nei suoi confronti.

A seguito della separazione C., senza più avere una casa né tantomeno una terra, arriva a Nairobi con la speranza di trovare lavoro.

Qui, C. rimane incinta dal suo nuovo compagno, compagno che sparisce non appena venuto a sapere la notizia.

Oggi, C. vive con i suoi 5 figli, tra i quali vi è anche una ragazza di 18 anni che è già diventata mamma. Vivono tutti insieme in una piccola baracca costruita in lamiera nella quale è possibile intravedere giusto un materasso sbattuto a terra sopra il quale dormono tutti.

La vita di C. è una lotta quotidiana. Dalla lotta contro la malattia al doversi prendere cura da sola dei propri figli. Dal riuscire a pagare l’affitto a fine mese al portare a casa qualche spicciolo ogni giorno per potere mettere qualcosa nei piatti.

Ma nonostante tutto ciò, la storia di C. è anche una storia positiva, una storia che dà speranza. C. non è la sola a conoscere il suo stato. Sua madre, sua sorella e le sue tre figlie sono tutte a conoscenza di ciò.

Se ciò potrebbe apparire come un dettaglio irrilevante, sappiate che non lo è affatto!

Gran parte delle nostre beneficiarie sono le sole a conoscere il proprio stato. Il loro marito? La loro madre? Le loro sorelle? Nessuno è stato informato a riguardo e tutt’ora si guardano bene dal farlo.

Lo stigma in Kenya è ancora molto forte. Troppo forte.

Gran parte delle nostre beneficiarie nascondono il loro stato non solo dalla società mainstream, ma anche, e soprattutto, dalle loro amiche e dai loro stessi parenti. Lo tengono nascosto all’interno delle proprie mura di casa.

Vivono, o meglio, sopravvivono tenendosi questo fardello solo per sé, fardello che diventa ancora più pesante dal momento che tutto il peso ricade solamente e unicamente sulle loro spalle.