Forse dovremmo imparare a vivere con più leggerezza

Eccomi qui, rinchiusa nella mia tana, sopravvissuta alla prima settimana di quarantena, evvai!

Scherzi a parte, non me la passo poi così male. Ho tutto il tempo che voglio per riscoprire i sapori italiani (ho mangiato le lasagne ed è stato bellissimo!), per immergermi nella lettura e, infine ma non da ultimo, per pitturare.

A Lusaka, ero entrata a far parte di un gruppo di artisti, chiamato “Art In Motion”, con i quali mi trovavo tutti i sabati mattina ed era così che, tra chiacchiere e colori, iniziavamo il nostro fine settimana.  

Premetto che erano anni e anni che non dipingevo. L’arte mi è sempre piaciuta, ma ho sempre dato la precedenza ad altre passioni, non trovando mai il tempo per dedicarmi ad essa.

Ma, come si dice, fuori dalla zona di comfort accadono cose magiche e così è stato.

Se puoi parlare, puoi cantare; se puoi camminare, puoi ballare

Ed io aggiungerei (per adattare il proverbio al mio caso) che, se puoi tenere in mano un pennello, puoi pitturare.

Questa frase me la disse un ragazzo ad un concerto. Stavamo parlando del più e del meno quando mi chiese se so cantare o ballare. È stato proprio quando risposi: «Certo, sotto la doccia, dove nessuno mi sente e mi vede», che ribatté con quella frase.

Non la scorderò mai.

Scoprii poi che era uno dei cantanti che si sarebbe esibito quella sera.

In Occidente, temo che siamo ben lontani da questo concetto. Tutto ciò che facciamo deve avere uno scopo ben preciso, deve condurre a certi risultati. Siamo ossessionati dall’idea di diventare qualcuno e crediamo di dover combattere una dura lotta per arrivare chissà dove.

È così che un ventenne desideroso di intraprendere un nuovo sport si sente rispondere: «Sei troppo vecchio per iniziare alla tua età. Se fossi in te, non prederei tempo!».

Allo stesso modo, una quarantenne bramosa di imparare a pitturare si sentirebbe dire: «Tu sei matta!».

Ogni tanto ho la sensazione che viviamo con delle scadenze, superate le quali pensiamo che non sia più possibile cambiare e intraprendere nuovi percorsi.

Quel che succede laddove la vita è più leggera

Il protagonista è sempre lui, Chewe, il mio amico calzolaio che probabilmente ora potrei anche definire come nostro amico visto che vi ho parlato di lui più e più volte.

Chewe era ovviamente informato circa questa mia nuova passione ed era così che, ogni lunedì, mi chiedeva di mostrargli la foto di quello che avevo fatto il sabato precedente.

Mi riempiva sempre di complimenti, domandandomi per una decina di volta se l’avessi fatto davvero io, prima di iniziare a dirmi che doveva assolutamente portarmi in un posto.

Fu così che un sabato ci troviamo verso metà mattina alla fermata del bus lungo la Great East Road, una delle strade principali che in quel particolare tratto separa l’area dove abitavo io, chiamata Rhodes Park, una delle zone più benestanti della capitale, da diversi compound piuttosto poveri.

Attraversiamo la strada e, passando tra i vari negozietti locali e i venditori ambulanti, iniziamo a camminare in direzione del suo compound. Lo superiamo e proseguiamo. Continuiamo a camminare finché non raggiungiamo un altro compound chiamato Garden, una delle aree più popolate e malandate della città.

Essendo completamente persa e non avendo la minima idea di dove ci stavamo dirigendo, iniziai a fare domande alle quali l’unica risposta che ottenni fu: «Tranquilla, siamo quasi arrivati».

Mi guardo intorno. Davanti a me la lunga strada polverosa piena di rifiuti. Alla mia destra alcune donne che, sedute nell’ombra dei pochi alberi, cercavano di vendere la loro mercanzia mentre alle loro spalle alcuni ragazzi ammucchiavano il carbone e lo preparavano per la vendita. Alla mia sinistra solo baracche.

Chewe si ferma davanti ad una delle tante costruzioni. La porta non esiste, così come non ci sono i gradini per accedere, nonostante l’ingresso sia piuttosto rialzato. Dell’edificio esce un suono di tamburi.

C’era una lezione. Un ragazzo (un rasta) stava insegnando ad almeno una ventina di bambini a suonare. Chewe che, a differenza mia, non si fa certo “intimorire” da queste cose, balza in mezzo alla stanza ed esordisce: «Good morning Sir, sono qui con un’amica. Finalmente sono riuscito a portarla in visita. È un’artista anche lei e ci teneva a vedere i tuoi lavori».

È così che l’amica che in realtà non aveva chiesto proprio nulla e anzi, ancora non sapeva in che razza di posto fosse finita, si ritrova al centro della stanza. I grandi occhioni neri dei bimbi erano tutti su di lei.

Non solo è già più unico che raro vedere una bianca in quel contesto, motivo per cui non sarei certo passata inosservata ma, a quanto pare, ero anche un’artista degna di interrompere la loro lezione.

Intanto l’insegnante si era gentilmente messo a mostrarmi alcune delle sue opere e mi domandava dove fosse il mio studio e quale fosse la mia specialità. Mi disse anche che sarebbe stato curioso di vedere alcune della mie opere.

Avrei tanto voluto scavare una fossa e sprofondare.

Inutile dire che anche quella volta sono riuscita a cavarmela e ad uscire da quella situazione disagiante.

Quel ragazzo è un’artista con la A maiuscola. I suoi quadri sono pazzeschi. In più, attraverso l’arte, cerca di “tirare via” i bimbi del compound dalla strada. Il corso di percussioni che stavamo interrompendo fa parte di quel progetto.

Insomma, capite cosa voglio dirvi con tutta questa storia?

Fate ciò che vi fa stare bene e mettete da parte tutte le paranoie e l’opinione degli altri.

Alla fine, qual è la realtà? È tutta una questione di percezioni.

Snobbata da una parte, un’artista di successo dall’altra 😉